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Contributo al Convegno “Dalla crisi un cambio di prospettiva, una nuova leadership HR”

Tavola rotonda: Visti dall’altra parte.
Pubblicato nella rivista “DdP” dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale AIDP
Marzo 2013 N° 164

Mi è stato chiesto, in quanto psicoterapeuta e autore del libro “Il piacere di lavorare” (Erickson), quali sono i principali malesseri che le persone sviluppano nei posti di lavoro e cosa dovrebbe fare un Direttore del Personale su questo tema per garantire un ambiente positivo e valorizzante per la persona stessa.

Alla prima parte della domanda potrei rispondere con una parola sola, drammatica e inquietante: depersonalizzazione. E’ la perdita della padronanza di sé, della propria identità e della possibilità di influire sugli eventi. Le persone coinvolte in questo processo si sentono progressivamente come dei burattini anonimi, non viste come individui, ignorate come persone. Tenute in considerazione e gestite solo come risorse che lavorano PER qualcuno.

Un qualcuno lontano, sconosciuto, che nemmeno sa della loro esistenza.

All’inizio sembra una condizione anche accettabile perchè finchè le cose vanno bene, finchè si lavora, finchè ci sono risultati, il senso di ciò che si fa si trova nell’apprendimento, nella sicurezza, anche nelle relazioni positive con i colleghi. Poi però col tempo, e soprattutto nei momenti di crisi quando gli eventi negativi ci travolgono, qualsiasi siano l’impegno, il contributo personale e le capacità espresse, cominciano ad emergere i primi pensieri allarmanti: “Ma per chi faccio tutto questo? Il mio lavoro impatta molto poco sui risultati, ma perché mi ammazzo così? Che ci faccio qui? Dopo tanto impegno mi possono cacciare da un momento all’altro a cosa è servito?”

E assieme a questi i pensieri ecco che il corpo manda segnali emozionali: si comincia a provare il senso di paura e di inutilità, è l’agitazione sotterranea di chi si sente precario, ininfluente, impotente, in balia di eventi lontani. E’ il turbamento di chi non trova senso e significato per quello che fa, perché qualsiaisi cosa faccia il risultato non cambia.

E tutto diventa insensato. E’ questa condizione che provoca ansia e panico, è la paura del bambino che si è perduto e non sa più dov’è, chi è e cosa può fare, è veramente impotente e in balia di eventi esterni che non può prevedere e da cui non può proteggersi.

Dopo un po’ di tempo si perde la proprietà e la direzione della propria vita. Spesso naturalmente si resiste per anni, in tensione, con i nervi tesi e le antenne in fibrillazione, ma poi è inevitabile il crollo, quando prima non ci hanno pensato delle malattie psicosomatiche e scuoterci e ad avvertirci che questa condizione è per tutti profondamente disumana. E i più forti e i più resistenti crollano più pesantemente.

Perdere Senso, perdere Identità, depersonalizzarsi, vuol dire distaccarsi dalle ragioni stesse della nostra vita, dalla nostra essenza che è costituita dalle nostre caratteristiche ancestrali e originarie di esseri umani, dalle nostre propensioni con cui nasciamo da milioni di anni. Siamo esseri umani se abbiamo una identità propria, se ci sentiamo vivi e stabili, se apparteniamo, se evolviamo, sono queste le pulsioni che dobbiamo soddisfare per sentirci compiuti e realizzati e dunque felici e contenti. Sono più o meno i bisogni di cui parlava Maslow, per intenderci: Sopravvivere e mantenerci sani, noi e la specie, Appartenere e scambiare affetto, Crescere e apprendere, Essere se stessi e realizzare la propria unicità.

E’ la realizzazione di queste pulsioni la spartiacque fra una vita sana e gioiosa e un’esistenza insensata e sofferente. Per tutti gli esseri umani, da sempre. E da sempre se non realizziamo le nostre pulsioni il nostro corpo, le nostre emozioni, la nostra vita interiore ci scuotono per avvertirci che c’è qualcosa che non va nella nostra salute generale. E’ questa la funzione di quelle che chiamiamo impropriamente “emozioni negative”, dare l’allarme.

La vita emotiva ci avverte sempre, ma poi è la coscienza, la nostra capacità riflessiva, la nostra razionalità insomma, che dovrebbe intervenire, non per ridurre o tacitare l’urlo della sirena come spesso facciamo, ma per cambiare il corso degli eventi che l’hanno attivata.
Se sentiamo di perdere la Sopravvivenza ci spaventiamo, diventiamo aggressivi e violenti.

Se perdiamo l’appartenenza ci sentiamo soli e perduti, ci deprimiamo, proviamo ansia e paura oppure sviluppiamo stati paranoidi dove chiunque diventa un potenziale nemico da cui guardarsi e difendersi.

Se perdiamo l’essere noi stessi, la nostra identità personale, abbiamo pure attacchi di ansia e di panico. Se smettiamo di imparare e di crescere proviamo un profondo senso di mortificazione, di apatia,
perdiamo vitalità, passione, energia. Questi sono i disturbi che accogliamo noi psicoterapeuti e counselor. Ogni pulsione negata ha il suo allarme, la vita psichica funziona esattamente come il corpo, perché è corpo, ha solo i suoi segnali specifici, ma sono esattamente come il dolore fisico, come la febbre, come il tremore, come la pressione sanguigna e la tachicardia, c’è qualcosa che non va.

Una volta a chi svolgeva una professione d’aiuto arrivavano quasi esclusivamente persone con disturbi rilevanti per lo più da traumi antichi o con problematiche residuali infantili, oggi oltre a questi arrivano anche persone sane, dal punto di vista della personalità di base, ma depersonalizzati, ansiosi, ossessivi, deprivati dell’identità, e scoppiati da troppe richieste operative e di responsabilità. E’ anche per questo che si stanno moltiplicando le richieste di counseling o di coaching nelle organizzazioni, perché le persone stanno perdendo la propria centralità e il senso della propria esistenza. Che fare allora se la crisi non è, almeno a breve, modificabile? E questa è la seconda domanda, che si può fare?

Io credo che i direttori del personale non possano fare molto a meno che le organizzazioni stesse non introducano un cambio di prospettiva piuttosto radicale. Ci si deve domandare di nuovo che cos’è il lavoro, e perché le persone lavorano, e soprattutto PER CHI lavorano? Se andiamo alla radice dell’attività umana che chiamiamo lavoro non possiamo che affermare che noi tutti lavoriamo PER NOI, non per un’organizzazione, lavoriamo per realizzare i nostri obiettivi di vita che sono appunto, come dicevo, SOPRAVVIVERE cioè mantenersi in vita, riprodursi e fare “manutenzione” e poi APPARTENERE, CONOSCERE e REALIZZARE SE STESSI.

Ci raccontiamo un sacco di sciocchezze se diciamo che lavoriamo per qualcuno, lo sappiamo tutti che non è vero e che lavoriamo per noi, ma intanto diamio ad intendere che è così. E dall’altra parte, poi, le organizzazioni parlano di proprie risorse. Proprie? Risorse? Dobbiamo smettere nelle organizzazioni di parlare di risorse e anche di "nostre" risorse, e guardare in faccia finalmente la realtà. Le persone non sono di nessuno, sono ... loro.

Le persone non lavorano "per" qualcuno, non l'hanno mai fatto a dire il vero, anche se qualche volta lo lasciano credere. Semplicemente lavorano per sé. Lavorano "CON" qualcuno, e spesso anche per poco tempo, assieme a qualcuno, con altri, ma per propri scopi, per proprie motivazioni. Magari gli scopi e le modalità sono condivise, come dovrebbe essere sempre per garantirsi coesione e tensione verso il risultato, ma è solo un “contratto” temporaneo, una coincidenza di desideri individuali.

Insomma dovremmo rovesciare il concetto per realizzare veramente imprese di successo ed entrare nel mondo dei rapporti maturi e adulti, nel mondo dell'inter - indipendenza. E' l'organizzazione a essere una risorsa per le persone. Una risorsa che gli esseri umani utilizzano per sopravvivere e, se è possibile, perfino per realizzare se stessi e sentirsi qualcuno, anzi UNO, unico e irripetibile. E allora le direzioni del personale si devono occupare di favorire la realizzazione delle pulsioni delle persone con cui operano, devono operare perché quelle persone siano soddisfatte di sé e provino la soddisfazione e la gioia che deriva dal raggiungimento dei propri obiettivi di vita, come esseri umani interi che devono poter sopravvivere, ma anche amare e appartenere, evolvere e realizzarsi in ciò che fanno.

Anche fosse solo in parte, le persone (e siamo tutti noi) si devono poter identificare in ciò che fanno e provare affetto per coloro con cui condividono una parte così rilevante della propria vita.

Smettiamola dunque di parlare di risorse e parliamo di persone che collaborano con noi per realizzare se stessi e i propri obiettivi e vivere serene e contente di sé e della propria opera. Non potremmo alla lettera nemmeno chiamarci direttori del personale, forse coordinatori del personale, forse coordinatori del lavoro umano, forse facilitatori del lavoro umano, possiamo anche mantenere le iniziali in inglese, HR, ma come Human Relations.

Troviamo altre parole, ma non facciamo finta di niente. Da quando l’evoluzione ha liberato gli esseri umani dalla dipendenza e dalla schiavitù, da quando abbiamo costruito la democrazia, ma anche da quando siamo usciti dalla simbiosi infantile e dal mondo della dipendenza infantile, non possiamo più considerare le persone come “nostre” o come “risorse”, dobbiamo riconoscere alle persone un’individualità che li riconosce proprietari di se stessi, persone che temporaneamente lavorano con noi per realizzare la propria essenza di esseri umani.

Degli Adulti insomma coscienti di sé, della propria identità differenziata, del proprio valore, del proprio scopo nella vita. Rovesciando questa prospettiva è il lavoro e le organizzazioni di lavoro a essere delle risorse per le persone, le persone usano il lavoro e i luoghi di lavoro per sopravvivere, ma anche per dare un senso al proprio passaggio sulla terra, per essere se stessi e portare a compimento il significato di una vita. Nelle organizzazioni fino ad ora non si sono volute persone vere, ma personaggi, automi, dipendenti, alla meglio collaboratori. Anche il linguaggio e i gesti sono depersonalizzati, sono formali, ingessati, ritualizzati, “tutti stanno sempre benissimo”, guai ad ammettere una difficoltà o una preoccupazione, si portano in giro facciate impersonali e inespressive per anni, e alla fine si diventa proprio così: inautentici e spersonalizzati.

Il capo è quasi sempre un nemico o una controparte, i colleghi sono dei competitor, anch’essi avversari a cui negare sempre la propria spontaneità e il vero sé. Anche la cultura in molte aziende è depersonalizzata. E invece le persone per funzionare bene hanno bisogno d’altro, hanno bisogno di essere se stesse e di essere riconosciute come tali, non servono riconoscimenti esteriori o economici per sentirsi OK e collaborare volentieri, per entusiasmarsi serve sentire di “essere parte” veramente, di appartenere a quel gruppo, non con una “facciata” o una immagine di sè, ma con l’interezza della propria persona.

E allora il compito di chi coordina il lavoro è quello di rendere possibile una vera vicinanza fra esseri umani che fanno insieme un pezzo di strada, ma amichevolmente, realmente appassionati per ciò che stanno facendo, realmente insieme perché si stimano e vedono gli altri come propri simili. Non devono essere fatti cadere in competizione con i propri compagni di viaggio.

Ma che follia!

Credo che chi si occupa di dirigere il personale dovrebbe darsi l’obiettivo di creare empatia fra le persone che lavorano insieme, e l’empatia si crea quando ci riconosciamo come simili, nella stessa barca, e tutti vogliamo, ma come uomini liberi, vogare nella stessa direzione. E allora siamo autentici, e ci fidiamo l’un l’altro perché siamo amici e condividiamo una parte della nostra vita.

Lavorare insieme per anni con efficacia non è una cosa facile, ma se chiediamo passione e responsabilità, fedeltà e cura, dobbiamo aiutare le persone a entusiasmarsi e ad amare ciò che fanno, e questo è possibile solo se ciò che fanno gli serve realmente per autorealizzarsi, appartenere, crescere e dare un senso alla propria esistenza.

E non basta ancora, perchè bisogna anche prendersi cura delle persone intere, della loro salute, fisica e mentale, aiutare le persone sì a realizzarsi attraverso il lavoro, ma senza mai dimenticare l'altra area fondamentale della vita di ognuno: l'affettività e l'amore.

Non si possono sequestrare gli esseri umani impedendogli di fatto l'altra vita: ci si innamora, ci si sposa, nascono bambini, ci si ammala, ci sono amici e parenti, si fa politica e sport, insomma si vive anche fuori.

Si possono delegare gli affetti a baby sitter, badanti, infermieri ed … escort?

Chi starà mai volentieri in un luogo di lavoro che gli impedisce la vita affettiva e relazionale? Molti cominciano a farne senza, letteralmente, ma devono pagare un prezzo altissimo: la solitudine e il fallimento relazionale e familiare. Forse per un po' si riescono a manipolare le menti fino a far credere che valga la pena rinunciare all'amore e alla vita affettiva per il lavoro, la carriera e il danaro, ma per quanto?

Per cambiare paradigma, sarò radicale, ma credo veramente che le persone bisogna amarle e rispettarle davvero. Tutto il resto è catena di montaggio e schiavitù, anche se in giacca e cravatta.