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In
questi ultimi tempi mi sono domandato spesso quali sono i temi più
frequenti che come Counselor dobbiamo affrontare nella pratica lavorativa.
Quali sono i problemi anche più “normali” che le persone
devono gestire perché gli intorbidano o gli rendono difficile la
vita di tutti i giorni?
Volendo, ovviamente, evitare di occuparci del disagio psichico, grave
o lieve che sia, quali sono i comportamenti, i pensieri, le emozioni o
le situazioni che noi tutti incontriamo e che finiscono molto spesso per
rovinarci l’esistenza?
Li ho chiamati i veleni dell’anima perché mi sembrano proprio
come delle intossicazioni che in modo più o meno profondo e letale
possono influenzare il carattere delle persone estremizzando sentimenti
che sarebbero pure normali o non pericolosi in natura, ma che diventano
nella nostra società perfino veri e propri scoppi di violenza .
In effetti, anche da un punto di vista tossicologico, la pericolosità
di un veleno dipende quasi sempre dalla quantità inserita nell’organismo,
a piccole dosi sono prevalentemente innocui.
Invidia, gelosia e competitività mi sono sembrate oggi le alterazioni
più comuni, ma voglio
dire fin da principio che se pure possono essere considerate reazioni
del tutto ovvie a un certo stato di malessere non le dovremmo comunque
trattare come inevitabili e tanto meno come naturali risposte istintive
che prescindono dalla cultura in cui siamo cresciuti. E’ indubbio
che si tratta di sentimenti piuttosto comuni, come del resto il senso
di colpa, la vergogna, la nostalgia, il rancore ecc., ma non sono né
universali né vissuti allo stesso modo dagli esseri umani nei diversi
paesi d’origine.
E’ una distinzione molto importante quella fra emozioni universali
(paura, rabbia, tristezza, gioia) e pulsioni naturali (curiosità,
affettività, sopravvivenza, autorealizzazione) da una parte, e
dall’altra sentimenti determinati culturalmente quali appunto la
gelosia, i sensi di colpa, la vergogna, l’imbarazzo, l’invidia,
ecc. proprio perché le prime sono impulsi vitali che hanno avuto
e hanno la funzione di attivare istintivamente gli esseri umani a un comportamento
o a un vissuto immediato utile alla sopravvivenza da sempre, mentre i
secondi, che pure sono reazioni emozionali, si sono raffinati nel tempo
e sviluppati in climi culturali molto diversi. Come vedremo ciascun sentimento
si riferisce a emozioni diverse, più arcaiche, e ne sono una derivazione
secondaria e con diverse possibili alternative.
Per esempio se sono spaventato (reazione emotiva originaria) perché
non mi sento più amato dalla mia ragazza e temo che mi lasci, posso
essere geloso oppure sentirmi colpevole o anche intristirmi o provare
invidia per altre persone sicure del proprio rapporto, ecc . Tutti questi
sono sentimenti favoriti in “qualità” e “volume”
molto diversi a seconda dei paesi e delle culture in cui cresciamo e per
di più vengono appresi in maniera molto differenziata per come
sono stati interiorizzati nelle personalissime prime esperienze infantili.
Per una mancata promozione sul lavoro noi possiamo, a seconda delle reazioni
automatiche apprese nell’infanzia (in Analisi Transazionale è
questo complesso di abitudini e automatismi mentali e comportamentali
che chiamiamo Copione), essere invidiosi di chi ha preso il nostro posto,
oppure entrare in competizione o, al contrario, vergognarci di noi stessi
e sentirci una nullità.
Purtroppo nella nostra cultura, devo dire anche psicologica in senso lato,
certe sottigliezze sembrano di poco conto e di conseguenza finiamo per
ritenere inevitabili e normali, dunque accettabili, sentimenti che non
lo sono e che per di più poi inducono, come vedremo, comportamenti
nocivi, fuorvianti, vanamente aggressivi e alla fine del tutto inutili
ad affrontare e risolvere il problema o l’incidente esistenziale
che li ha suscitati. Alla fine ci roviniamo l’esistenza da soli,
proprio perché affrontiamo la complessa realtà adulta con
strumenti grezzi e inefficaci imparati da bambini e che per lo più
sono sostitutivi di emozioni e sentimenti appropriati. E lo facciamo per
di più con le persone a noi più vicine, raccontandoci, per
assolverci un po’ che così fan tutti e che certi “moti
dell’Io” alimenterebbero la crescita (l’invidia), l’amore
(la gelosia) e il progresso (la competitività).
E intanto ci annebbiamo, letteralmente, lo sguardo e il cuore.
Non c’è dubbio che siamo tutti anche un po’ invidiosi,
gelosi o competitivi, come del resto siamo tutti un po’ ansiosi,
confusi e stressati, ma non mi sembra un buon motivo per considerare queste
come condizioni umane immutabili e tanto meno auspicabili.
In realtà, come vedremo, seppure in piccole dosi gelosia, invidia
e competitività, quando sono accettate come sentimenti inevitabili,
finiscono per nascondere i problemi sottostanti e impedirne di conseguenza
la soluzione. Finiscono, come vedremo, per spostare aggressivamente contro
gli altri le nostre insicurezze, anziché comprenderle e superarle,
con il bel risultato di ampliarle e drammatizzarle sempre più.
Per dirla con l’Analisi Transazionale: per evitare di sentirsi NON
OK le persone cercano in tutti i modi di sentirsi OK a scapito degli altri
che diventano così nemici da combattere, da disprezzare o da umiliare.
Questo articolo vuole fare un po’ di chiarezza e dare qualche strumento
concettuale e operativo ai Counselor per aiutarli ad affrontare per tempo
e in modo adeguato questi sentimenti prima che si trasformino, per mancanza
di maturazione e di soluzione del problema, in esasperazioni eccessive,
in ossessioni e perfino violenza.
Io penso che le vipere siano da evitare piuttosto che portarsi in tasca
degli antidoti, per rimediare dopo e durante l’avvelenamento, che
è pur sempre pericoloso.
Penso che crescere voglia dire oltre che evolvere e cercare di migliorarsi,
anche accettare le diversità, i propri limiti e anche le sconfitte,
non essere sempre più ricchi o conquistare più territori
o certezze, tanto più se a scapito di altri. Penso voglia dire
sprecare meno energie, fare una buona manutenzione, amare se stessi e
il prossimo, stare in armonia con l’ambiente, godersi la vita e
ciò che si ha. Che poi sarebbe, per meglio dire, ciò che
si è.
Guardate questa foto, se foste la ragazzina
di destra (per noi che guardiamo, non fate i furbi) che sentimento provereste?
Invidia, gelosia o competitività?
Non è facile così, perché non c’è un
contesto, ma proviamo lo stesso.
State anche attenti che di solito la competitività è un
po’ meno dichiarata, per diversi motivi e che la gelosia sarebbe
certo più sentita se identificassimo il ragazzino come il nostro
compagno di giochi preferito.
Ma insomma pur con tutti i limiti del caso, negli workshop in cui ho mostrato
questa foto i partecipanti si sono divisi grosso modo così: invidia
40%, gelosia 40%, competitività 20%.
In un articolo è difficile riprodurre il lavoro fatto in workshop,
ma provo comunque a ripeterne il percorso per darne almeno un’idea.
Dopo aver mostrato la foto ho suddiviso i partecipanti in tre sotto gruppi
a seconda del sentimento che avevano maggiormente provato vedendola e
poi ho chiesto loro di descrivere in breve per iscritto un paio di situazioni
recenti in cui avevano sperimentato quello stesso sentimento, di ricostruirle
possibilmente a occhi chiusi, ricuperandone il più possibile anche
lo stato emotivo.
Questo primo atto vuole far riemergere e portare in primo piano soprattutto
l’aspetto emozionale tenendo conto che tutte le persone tendono
ad avere sempre dei sentimenti o delle emozioni preferite qualunque cosa
accada, le hanno selezionate e ripetute per anni vivendo dentro a un proprio
Copione di vita che restringe sempre, molto o poco che sia, le
svariate possibili reazioni umane. Cercando di far rivivere con una certa
intensità questi momenti rendo possibile, successivamente, creare
un ponte col passato e andare a cercare come e perché questi nostri
sentimenti sono nati e in quali situazioni familiari.
La domanda successiva è infatti questa: “in quali situazioni
del passato provavi normalmente quel tuo sentimento? Quando nell’infanzia
e con chi ti ritrovavi a essere invidioso, geloso o competitivo?”
Questa fase ovviamente può essere delicata o anche struggente,
ma ho sperimentato che tutti i partecipanti ricordano abbastanza facilmente
scene familiari in cui si scatenavano piccole o grandi guerre in tutte
le direzioni. Molto più di quanto si immagini - normalmente si
pensa prevalentemente a una dinamica fra genitori e figli - emergono poi
drammi fra fratelli: fra maschi o fra femmine oppure fra fratello e sorella,
fra maggiori e minori, ma anche i figli unici spesso si ritrovano a competere,
per esempio, per avere l’amore di un genitore a scapito dell’altro,
o a invidiare un altro bambino vicino di casa che ha dei fratelli o genitori
più accudenti.
Chiedo sempre ai partecipanti di scrivere qualche nota a questo punto
in modo da poter fissare i ricordi e poi ricondurre, pur con qualche forzatura,
i sentimenti provati ai tre su cui stiamo riflettendo.
La tappa successiva è come sempre una condivisione in piccolo gruppo
per cui si formano terzetti di gelosi, di invidiosi e di competitivi che
si raccontano le storie dell’infanzia o della giovinezza in cui
hanno provato quei sentimenti.
In questi sottogruppi emergono spesso nuovi sorprendenti ricordi anche
perché i racconti degli altri stimolano riflessioni nuove e punti
di vista molto diversi.
Non credo sia possibile riportare qui la grande varietà di situazioni
in cui i bambini finiscono per fissare per sempre opinioni su di sé
o sul mondo e i sentimenti correlati, traendo dunque conclusioni precoci
sulle proprie superiorità o inferiorità oppure sui comportamenti
più o meno bellicosi, ma possiamo solo dire che esistono condizioni
che si ripetono più di altre.
Dobbiamo sempre evitare che dei luoghi comuni si trasformino in definizioni
caratteriologiche per cui i primogeniti, tanto per fare un esempio fra
i tanti, dovendo scontrarsi con la coppia genitoriale finiscono per diventare
testardi e competitivi, tanto più se c’è un fratello
minore che attenta alla sua primogenitura. In verità è altrettanto
possibile che lo stesso bambino veda la nascita del fratellino come un
tradimento della sua solitaria regalità.
O, ovviamente, come sarebbe auspicabile, come la nascita di un alleato
da amare.
Allo stesso modo un secondogenito può sia sentirsi inferiore osservando
le straordinarie abilità del fratello maggiore e diventare furiosamente
invidioso, ma è altrettanto possibile che si senta geloso tutte
le volte che la mamma lo “abbandona” per riequilibrare le
cure anche verso l’altro figlio.
A ogni modo nei colloqui fra i partecipanti nei terzetti e poi nella plenaria
successiva (in cui faccio analizzare i tre sentimenti uno per uno) emergono
alcune riflessioni molto importanti, la prima è che non ci sono
regole fisse: i sentimenti di invidia, gelosia e competitività
non scaturiscono da situazioni specifiche. Tutto dipende dall’autostima
di base del bambino, da come le frustrazioni vengono vissute e gestite
nel sistema familiare e da come il bambino stesso è aiutato ad
affrontarle. Naturalmente se da questa parte invidia, gelosia e competitività
sono sentimenti attivanti e “ribelli”, dall’altra parte
ci possono essere anche reazioni “depressive” come la passività,
il ritiro, l’agitazione, l’ansia, l’autosvalutazione,
ecc.
Un altro elemento di riflessione scaturisce dalla constatazione di come
un sentimento fissato nell’infanzia, a seguito di una certa situazione
frustrante, ritorni costantemente poi anche in situazioni molto diverse,
anche quando sembrerebbe (naturalmente ad occhi estranei) poco appropriato.
Un certo sentimento diventa col tempo sempre più frequente così
come diventa sempre più frequente un pensiero pseudo razionale
che tenta di giustificarlo. I brutti voti a scuola o qualche insuccesso
sportivo, per esempio, possono in qualcuno suscitare emozionalmente invidia
rancorosa verso i compagni e poi essere giustificati da un processo cognitivo
che definisce il mondo come nemico e ostile. Dunque l’invidia è
“proprio quello che ci vuole”.
L’esito in genere difficilmente porterà ad analizzare le
proprie difficoltà, quanto piuttosto susciterà comportamenti
ostili e distanzianti.
Il circolo virtuoso soddisfacente si verifica invece quando la frustrazione
suscita un’emozione naturale e poi un comportamento utile al soddisfacimento
del bisogno. Se, per esempio, un fratello maggiore vede la mamma abbracciare
la sorellina più di quanto possa sopportare, potrebbe provare forti
sensazioni di paura di non essere amato, ma questa sarebbe una risposta
emotiva adeguata e naturale che potrebbe portare a una richiesta immediata
di altrettanto amore e a una risposta tranquillizzante della madre stessa.
In questo modo l’incidente sarebbe concluso con comportamenti positivi
che ridurrebbero di molto la paura iniziale ripristinando l’OKness
relazionale e individuale.
Se invece la richiesta d’amore fosse costantemente disconosciuta
si potrebbe instaurare un sentimento di arrabbiata gelosia agito con provocazioni
aggressive verso la piccola colpevole di defraudare l’amore. Detto
per inciso, in genere si salva sempre l’oggetto amato e si aggredisce
piuttosto l’intruso, come ben sanno tutti coloro che hanno a che
fare, in età adulta, con i triangoli amorosi marito/moglie/amante.
Ovviamente quanto più profondi, frequenti e precoci sono i disconoscimenti
affettivi tanto più reiterate, aggressive e violente saranno le
reazioni di gelosia o all’opposto il ritiro depressivo. Quanto più
la persona amata è vissuta come indispensabile per la propria sopravvivenza
tanto più angosciata e disperata sarà vissuta emozionalmente
la sua assenza, tanto più si formeranno pensieri negativi e si
attiveranno comportamenti distruttivi e letali. Come i tanti casi di femminicidio
e di suicidio dimostrano, l’angoscia d’abbandono può
essere così forte, il dolore così bruciante e la speranza
d’amore così impossibile da far preferire talvolta la morte,
ritenuta l’unica via d’uscita a tanto insostenibile dolore.
Alla fine le persone in questi workshop finiscono spessissimo per scoprire
quanto sono state non solo vittime di certe situazioni “obiettivamente”
frustranti, ma che soprattutto sono prigioniere di un sistema circolare
(situazione frustrante /sentimento sostitutivo /pensiero pseudorazionale
/comportamento reiterato/ sentimento frustrante) che si autoalimenta e
che si rinforza con la sua stessa ripetizione non permettendo più
di analizzare volta per volta le situazioni e di trovare risposte alternative
nuove. Naturalmente le gradazioni del danno e della rigidità del
sistema sono amplissime sia per quanto riguarda il livello di frustrazione
percepita nell’infanzia che per quanto riguarda le risposte emotive,
del pensiero e del comportamento. Per questo anche un workshop breve come
questo può indurre qualche consapevolezza e qualche cambiamento.
Riporto qui di seguito con la brevità che mi è stata richiesta
per la pubblicazione di questo articolo nella rivista i contenuti delle
slides presentate durante il convegno.
INVIDIA
CIO’ CHE NON SI HA
Da in (prefisso negativo) + videre = guardare male
E’ il rammarico e il risentimento che si prova per la felicità,
la prosperità e il benessere altrui,
sia che l'invidioso si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia
che, già possedendoli,
ne pretenda l'esclusivo godimento. E’ in genere poco confessabile
perché evidenzierebbe il proprio stato di inferiorità, proprio
ciò che fa più male. Consiste nell’atto di confrontare
ciò che si è o si ha con qualcun altro che si stima superiore
e nello sviluppare odio e avversione.
In questo modo si perdono di vista i propri bisogni e i desideri profondi
privilegiando l’andare contro l’altro piuttosto che guardare
ciò che manca veramente e cercare di procurarselo.
La possibilità di accettare la mancanza e la frustrazione per ciò
che non si ha si ottiene solo con la consapevolezza della propria unicità
e la soddisfazione relativa alla realizzazione del proprio valore
GELOSIA
CIO’ CHE SI HA E SI HA PAURA DI PERDERE
E’ la paura, che può trasformarsi in rabbia, di perdere l’amore,
l’amicizia o la stima di qualcuno con cui si ha un’intensa
relazione affettiva. E’ spesso confessabile, anzi persino ostentata,
perché la si vuol far passare come una dimostrazione d’amore
mentre è l’incapacità di fare a meno. Suscita forte
avversione verso la persona che mette in pericolo dall’esterno la
relazione piuttosto che attivare comportamenti amorosi e affettivi per
migliorare la relazione in corso. Si perde di vista la propria insicurezza
affettiva privilegiando l’andare contro l’intruso svalutando
nel contempo i sentimenti della persona amata.
La possibilità di superare i sentimenti di gelosia passa attraverso
la sicurezza sulla propria amabilità a prescindere da un solo soggetto
amato e dalla considerazione che l’altro non è mai di nostro
possesso. In sostanza è necessario essere consapevoli che una buona
relazione amorosa è possibile con molte persone diverse.
COMPETITIVITA’
CIO’ CHE SI VUOLE OTTENERE A SCAPITO DI ALTRI
E’ l’aggressività nociva verso qualcuno che si vuole
superare e sconfiggere per nascondere la propria fragilità e il
sospetto di essere inferiori piuttosto che attivarsi per raggiungere i
propri obiettivi. E’ spesso confessabile, anzi persino ostentata,
come dimostrazione di forza e di determinazione. Si perde così
di vista la propria insicurezza e la possibilità di migliorarsi.
La possibilità di superare sentimenti di competitività passa
attraverso la consapevolezza che la sicurezza del proprio valore prescinde
dal confronto con gli altri e, come per l’invidia, attraverso l’accettazione
della mancanza e della frustrazione per ciò che non si ha.
Bisogna recuperare il senso storico e psicologico della propria unicità
e trovare la realizzazione dei propri talenti individuali.
COS’HANNO IN COMUNE
Quando le persone sono pervase di gelosia, invidia e competitività
perdono di vista
la propria insicurezza e i propri limiti, guardano fuori anziché
guardarsi dentro.
In questo modo non affrontano le paure sottostanti (naturali e del tutto
comprensibili nei diversi stadi della vita) di essere non amabili, senza
valore o impotenti.
Preferiscono andare contro l’altro mettendo in secondo piano la
propria umanità e i propri reali bisogni. |
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